interview for Fare Voci, Italy, March 2020

Solo quando la città

Aleš Šteger, “Le finestre di Berlino”

di Giovanni Fierro

 

Passare un anno a Berlino, viverla giorno dopo giorno e scriverne, con uno spirito diaristico e allo stesso tempo dando forma ad una serie di racconti.
È quello che è successo ad Aleš Šteger, poeta ed autore sloveno, una delle voci più significative del panorama contemporaneo.
Andato a Berlino grazie alla borsa di studio del DAAD Künstlerprogramm, progetto di ospitalità per artisti, Aleš Šteger ci ha soggiornato dal 2005 al 2006, per poi affidare quell’esperienza ai trentacinque racconti di “Le finestre di Berlino”, pubblicato nel 2007 ed ora riproposto nell’edizione di Bottega Errante Edizioni.
Sono pagine che si leggono con piacere, dove allo sguardo ‘ospite’ si mescola il ‘vedere’ delle quotidianità, dove lo Šteger poeta coglie momenti di assoluto stupore e costruisce una narrazione che vive la confidenza del giorno dopo giorno.
Ovviamente c’è la Berlino Est e quella Ovest, “Come se il Muro non fosse stato abbattuto, ma fosse semplicemente stato sepolto”; c’è l’aria che si respira quando arrivano le folate di novembre, che “soffiano a raffiche dalla Siberia e strada facendo raccolgono l’odore della Polonia, che si insinua nelle vie berlinesi impregnandole di una malinconia aspra e piena”.
E anche il tempo che scopre è una sorpresa: “Secondo un mio amico portoghese Berlino è ormai un sobborgo di Tokyo. Al pari dei giapponesi, anche gli abitanti di Berlino vivono in un perenne futuro”.
Il suo è un raccontare che piano piano si fa sempre più intimo, che racconta dello spaesamento che comunque affiora, quando si crea un confronto e si sa che non si è del posto, “Come ogni immigrato, porto con me le mie gabbie. Restiamo tutti prigionieri dei luoghi dove siamo stati”.
Ma è un confronto che permette anche analisi profonde e particolari, “I berlinesi si separano dagli oggetti con molta maggiore disinvoltura rispetto agli sloveni, ma faticano a congedarsi dalle proprie storie”, perché “gli oggetti lasciano la loro impronta nella memoria di chi si oppone al desiderio di possederli”.
Ma è la quotidianità che poi permette un respiro condiviso, un riempire le giornate con il proprio comune stare al mondo, che concede una vicinanza con le vie e le piazze, che fa fermare Aleš Šteger al pensiero che “Se la strada è la metafora della psiche umana, i mendicanti sono il nostro inconscio, e inciampiamo in loro proprio quando ci sentiamo più al sicuro”.
“Le finestre di Berlino” ci racconta di un anno vissuto già un po’ di tempo fa, ma che è utile per stare nelle pagine di una narrazione che mostra e racconta, rende partecipe il lettore a un qualcosa di prezioso, e che trova nella bella scrittura di Šteger la sua forza e il suo coinvolgimento.
Sì, “Berlino è un mostro. Berlino è la città più bella del mondo”.

 

dal libro:

“I berlinesi sono maestri del vivere nel vuoto. Se solo potessero, rinchiuderebbero nel proprio appartamento – in piena notte – il deserto, le grigie distese della brughiera o l’orizzonte con le sue nebbie mattutine sul mare aperto.”

“E di violenza e melodramma il ventesimo secolo ne ha avuti in abbondanza. Il ventesimo secolo. Quando mi voltai per puntare il mio sguardo contro la sera, vidi cadere giù dal cielo ceno estati e cento inverni, lenti e bianchi come porcellana.”

“Il marciapiede, messo a dura prova dalla storia, si è gonfiato come pasta lievitata. A piedi nudi e con le scarpe, a Berlino Est camminavo sulle tue croste screpolate, o nostro pane quotidiano. O forse, come nelle metafore cristologiche, lo sbriciolarsi dei passi era, in quel luogo, un graduale avvicinamento a un sentire divino, per quanto possa essere divino ciò che si perde nel mondo infantile e in quello dei sogni?”

“Il lento scivolare delle bianche vocali nella luce che cade dalla finestra. Il loro lento scivolare in me, che cado in questa fessura nel soffitto, nella fessura chiamata Berlino.”

“L’autista ubriaco, uscito per accertarsi del danno, fece un gesto con la mano e tornò al posto di guida. Come se si sentisse al sicuro nella pancia del lupo, si allungò sul sedile di fianco e, con il pollice infilato in bocca, cadde addormentato.”

“Berlino mi ha separato dal mio corpo. Come un foglio di calendario strappato, l’ho cercato, il corpo, mentre si insediavano in me immagini, strade, volti. Il tempo non esiste al di fuori di queste strade, queste immagini, questi volti. Solo nello spazio, in una sontuosa consumazione di se stesse, le ore assumono un qualche significato.”

 

intervista ad Aleš Šteger:

Sono passati diversi anni, da quando hai vissuto a Berlino e scritto questo libro. Adesso, cosa ti rimane di quella esperienza?
È strano vedere come questo particolare libro sia ancora vivo, e di come piaccia a tanti lettori che si identificano nelle sue pagine.
Ai miei occhi, ora molti degli aspetti di Berlino non coincidono più con la Berlino di oggi. È una città dove la gentrificazione ha portato dei cambiamenti; ora è un centro del mondo, sia di potere politico che economico.
Quando stavo scrivendo il libro, Berlino era ancora qualcos’altro, qualcosa di non completato, di non finito, e dappertutto c’era il profumo dell’utopia.
D’altra parte, rileggere questi testi mi riporta emotivamente indietro, così per me il libro è una sorta di macchina del tempo.
Un terzo aspetto sono i riferimenti agli scrittori e ai libri che leggevo allora. Sono stati testi veramente importanti per me, e significativi lo sono tuttora.
Così il libro è anche una piccola anatomia delle letture che per me sono state formative.

Capitolo dopo capitolo parli di Berlino e della sua gente. E in ogni pagina emerge sempre il tuo essere un poeta. È un qualcosa che volevi o, inevitabilmente, un qualcosa impossibile da nascondere?
Il libro è stato scritto senza una vera intenzione di rendere pubblico ciò che stavo scrivendo.
Perché, invece, era più per un motivo personale, mio; come una sorta di taccuino su cui annotare ciò che mi interessava.
Riguardo al particolare aspetto poetico del libro, posso dire che deriva dal modo molto semplice in cui il mio cervello funzione, e da quello che poi ho creato con il modo in cui mi sono relazionato nei confronti dell’uso della lingua.

Il libro contiene l’umanità di ogni giorno. Era il punto di partenza per costruire le varie storie, o qualcosa che è accaduto mentre lo stavi scrivendo?
Come ho detto, queste storie erano già là. Come una specie di oggetto di un tempo passato e cristallizzato.
Tutto ciò che dovevo fare era di non rompere e rovinare queste storie, mentre le stavo scrivendo.

Berlino Est e Berlino Ovest, quali i punti di vicinanza e quali quelli di lontananza…
Ciò che più mi affascinava erano gli spazi vuoti fra l’est e l’ovest, i loro punti e le loro cuciture.
La gran parte sono scomparsi, da quando ho scritto il libro.
D’altro canto una ‘mentalità da Est’ e una ‘mentalità da Ovest’ ancora rimangono a Berlino, ognuna con il suo specifico ‘sognare’ ed il proprio ‘avere paura’.

Penso che il libro si nutra anche di una continua sorpresa. Per tutto, piccola o grande cosa che succede nella vita di ogni giorno. È solo un mio pensiero?
Quando in un luogo non ci sentiamo completamente a casa, lo vediamo con occhi differenti.
Ogni cosa può diventare un piccolo mistero o una meraviglia.
Essere uno straniero o un outsider è una bella condizione per uno scrittore.
Rispetto a questo la poesia mi insegna che non c’è differenza fra ciò che puoi chiamare grande o chiamare piccolo, con l’immaginazione e la conoscenza uno può riconoscere un frammento nel tutto, e il tutto in un frammento.
In questo momento, lo scoprire una nascosta corrispondenza o connessione, che improvvisamente diventa visibile attraverso lo scrivere, è uno dei miracoli della letteratura.

Qual era la tua di Europa che hai vissuto nell’anno che hai passato a Berlino, e quale è ora?
Ho vissuto a Berlino più di dieci anni fa. A quel tempo sembrava che il progetto Europa era destinato al successo, e nulla poteva fermarlo.
Oggi come oggi è completamente differente. L’impegnarsi per una aperta, democratica e tollerante Europa sta diventando sempre meno popolare.
Questo è terribile. E, oggi come oggi, per me lo scrivere di luoghi come Berlino ha ancora più senso.

 

L’autore:
Aleš Šteger è nato a Ptuj nel 1973, si è laureato all’Università di Ljubljana in letterature comparate e tedesco.
Attualmente vive e lavora a Ljubljana ed è uno degli interpreti più brillanti ed eclettici della nuova letteratura slovena.
Scrittore cosmopolita, traduttore, critico letterario, fotografo, Šteger è ideatore e organizzatore di festival ed eventi letterari.
La sua prima raccolta di poesia “Šahovnice ur (Scacchiere di ore)” risale al 1995, e ha rappresentato l’avvio di una nuova generazione di poeti che fino all’adolescenza erano vissuti in Jugoslavia, affermandosi poi come poeti nella Slovenia indipendente.
È inoltre direttore editoriale della casa editrice Beletrina di Lubiana.
Ha al suo attivo diverse raccolte di poesia, tradotte in varie lingue.
Ha curato diverse antologie di poesia slovena e tradotto, tra gli altri, Pablo Neruda, Gottfried Benn e Ingeborg Bachmann.
Il suo libro “Berlin / Le finestre di Berlino” si è aggiudicato in patria il premio Marjan Rožanc, ex æquo per il miglior saggio 2007 ed è apparso per la prima volta in Italia per i tipi di Zandonai editore nel 2009.

(Aleš Šteger “Le finestre di Berlino”, pp.147, 14 euro, Bottega Errante Edizioni, 2019)